« ù balùn, ù balùn... »

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Durante l'ultima guerra, su Punta Baffe, il promontorio a levante del golfo di Riva Trigoso, in località detta «Semaforo» da un abbandonato posto d'osservazione militare funzionava un avvistamento «privato».

La prima incursione aerea del marzo del '44 sui Cantieri del Tirreno, avvenuta di sorpresa, aveva provocato un certo numero di vittime fra i lavoratori raggiunti dal lancio sui posti di lavoro. L'allarme con la sirena — come sovente accadeva per le formazioni di passaggio — era stato suonato in ritardo, quando già i cacciabombardieri volteggiavano in picchiata sul cielo delle gru. L'azione di quel giorno iniziò la cittadina agli orrori delle rovine e del sangue (qualcuno aveva detto finallora, tra il serio e lo scherzoso, che l'Ingegner Piaggio era amico degli Inglesi e il suo Cantiere non gliel'avrebbero bombardato!) e diffuse, incrementò la gran paura più che giustificata dopo la prova atroce.

Una commissione di operai richiese alla Direzione del Cantiere di esser meglio salvaguardati e la Direzione, col beneplacito della « Kommandantur » germanica, acconsentì all'istituzione del posto d'allarme visivo nell'alta località sopradetta. Due uomini del Cantiere furono dislocati, durante gli orari di lavoro, nel bosco attorno ad un'asta metallica sulla quale si faceva alzare all'evenienza un grosso bidone di benzina vuoto, pitturato di bianco, ben visibile dal Cantiere. Era il « pallone » battezzato così dalla gente, e quando nelle officine e in paese si propagava il grido « ù balùn, ù balùn... » era una fuga veloce e generale verso i rifugi antiaerei costruiti in fretta ed incompiuti nel ventre delle colline, verso le gallerie ex-ferroviarie della strada per Moneglia nelle quali i più fifoni avevano preso stabile dimora trasformandole in dormitori pubblici.

Abbiamo ricordato questo per rendere omaggio al ricorso storico, non speculazione fìlosofica ma realtà tangente. Gli uomini del pallone certo non pensavano di ripetere i gesti che — mutatis mutandis, i « pirati » erano attesi dall'aria! — quattrocento anni prima gli antenati, in vedetta sulla Torre di Bardi, compievano per segnalare agli abitanti di Ginestra e di Trigoso e dell'interno il profilarsi all'orizzonte dei vascelli saraceni e l'incombente predoneria.

La collina di Bardi e la sua Torre, contrariamente a quel che si potrebbe pensare data la posizione e la struttura, non furono mai usate ad opera di difesa armata contro gli sbarchi e la invasione barbaresca ma servirono semplicemente come posto di segnalazione. Nelle mura sbrecciate che oggi rimangono a coronare la collina, tra il verde cupo dei cipressi e dei pini a dominio di un ripido costone che precipita sull'abitato steso al mare, s'indovinano nettamente i disegni originali di feritoie ma esse restarono sempre orbate di bocche da fuoco.

Esiste tutta una pratica burocratica di solleciti e suppliche indirizzate dai Podestà pro-tempore di Sestri Levante all'Eccellentissimo Senato della Repubblica Genovese perché fosse dotata di pezzi d'artiglieria la «Torre di Ripa»; e dopo le varie scorribande dei pirati, contando i danni subiti l'autorità locale lamenta più volte che se «in la Torre nova fatta a Tregosa» sparasse qualche colubrina «li turchi» non avrebbero così man libera, si potrebbero intimorire e anche far scappare.

La guardia di Bardi era più che altro un servizio civile mutuamente organizzato, con regole autodisciplinari liberamente accettate senza militaresca costrizione per la salvezza comune: la piccola « guarnigione » inerme della Torre aveva dunque il solo scopo di vigilare il mare, segnalare il pericolo e... ritirarsi strategicamente!

Il sistema di segnalazione usato era il seguente: s'incendiavano sul torrazzo delle fascine di « brugo » (rami d'erica secca, quel materiale usato per le ramazze da caserma e per gli spazzini vecchia maniera), inumidite per provocar gran fumo se adoperate di giorno, impeciate o cosparse d'olio per la notte. Il piccolo falò veniva poi rinchiuso in una specie di gabbia di fìl di ferro e issato a carrucola sulla cima di un palo perché fosse maggiormente visibile, e qualche avvistatore più audace trovava anche modo di segnalare, appena gli era possibile, il numero delle navi in rada, ammainando e issando nuovamente il braciere tante volte quant'erano le prore affacciate sul golfo.

Se la Storia è fatta di reperto archeologico, grossi avvenimenti politici, fatti d'arme, biografie di Grandi ed influenza di forti pensatori la storia di Riva Trigoso è tutta qui. Le incursioni barbaresche (ne ebbe a subire diverse, in epoca relativamente recente, ancor prima nelle sue frazioni matrici, Ginestra, San Bartolomeo, Trigoso e poi sugli abitati al mare del nascente centro) sono il fatto saliente delle vicende rivane. Esse trovano inquadratura nella più vasta lotta che per circa un millennio impegnò le popolazioni costiere e i Principi cristiani contro la pirateria e la sacrilegità islamica; e le pietre della Torre dei Doria sulla sommità di Colle Bardi, calcinate dal sole e sgretolate dalla pioggia, perdurano a cenno di modesta testimonianza come tant'altre disseminate ovunque, in Liguria ed altrove.

Ma storia — per parte nostra — è anche tenacia di genti in lotta contro le avversità naturali, fiducia nel lavoro di generazioni, virtù civiche, imprese eroiche di umili; gli anni del consolidamento pacifico, dell'ascesa patrimoniale e industriale, dell'attestato di condizioni di vita decorosa, di organizzazione collettiva efficiente ed esemplare. In tal campo Riva Trigoso può dire la sua parola con moderato orgoglio.