Ritorno all’antico borgo natio

(Sergio Stagnaro)

 

L’antico borgo di Trigoso può essere raggiunto seguendo  numerosi sentieri serpeggianti tra  verdi colline,  risalendo l’Aurelia, fiancheggiata a nord da case variopinte e dai balconi fioriti anche d’inverno, percorrendo l’antica via del Paradiso, custode di tante memorie ed appendice dell’artistico “sagrato di luce”, oppure, compiendo una prova da sforzo cardiovascolare gratuitamente fornita a chi sceglie di arrampicarsi lungo via Gavignazzi, nobilitata dal nome di un giovane partigiano fucilato nel 1944: ora le sue spoglie terrene riposano, assieme a quelle di  altri partigiani e del loro comandante, nel vicino cimitero, nella pace dei giusti.

Nelle mie quotidiane passeggiate terapeutiche, ricca di ricordi, via Gavignazzi, che inizia nell’angolo di nord-est della piazza della Stazione, è una tappa obbligata. Ascolto voci familiari, percepisco chiaramente presenze sfuggenti ai miei deboli sensi  e, con occhi tristi per nostalgia, seguo il lento succedersi dei vecchi scalini, logori e stanchi, imprigionati tra  mura orribilmente coperte da calce-struzzo, che in alcune parti lasciano intravedere sottostanti pietre corrose dal tempo, appartenenti all’antica "creuza de ma". Per me, via Gavignazzi è  un correlativo oggettivo, trucco letterario tanto apprezzato dal mio Maestro di Vita, Alfredo Obertello di Bargone. “Mio caro Alfredo” gli dicevo con amore filiale molti anni or sono, “il tuo adorato Elliot, ha scoperto un bel fico secco. Ognuno di noi, povere creature, trova in un oggetto reale e concreto il simbolo, la metafora, l’equivalente di sentimenti altrimenti difficili da esprimere con le parole”.

Un giorno della  primavera del 1921, dopo sette lunghi anni trascorsi come punizione nella selvaggia Africa, Silvio faceva finalmente ritorno al suo antico borgo natio, di buon mattino, che l’alba non aveva ancora fugato l’ombra profonda della notte. La brutta storia, in verità, ebbe inizio una domenica sera del 1915,  quando, a causa di una nebbia fittissima alzatasi velocemente nel mantovano, per fortuna sua, a Silvio fu impossibile ritornare dalla stazione ferroviaria nella caserma di Mantova entro i termini regolamentari, dopo una breve visita fatta ai genitori lontani. Per un giovane d’allora i soldi per il taxi  erano tanto rari come oggi le offerte di lavoro o le opere buone. La scelta prospettatagli  da ufficiali superiori, a causa della mancata partenza per il fronte, dove sarebbe certamente morto come tutti i suoi compagni, era tra il disonore di Gaeta o le possibili avventure nella selvaggia Etiopia. La scelta, ovviamente, era scontata, ma non era prevedibile la lunga permanenza in Africa, una terra dal clima insopportabile,  tra individui primitivi.

Con una insolita tachicardia ed ansimando in modo inconsueto, Silvio saliva la strada familiare per giungere finalmente a casa, dove avrebbe abbracciato i genitori, i numerosi fratelli e sorelle che da tempo non vedeva ne sentiva, sollecitato da un ansia giovanile.  L’affannoso respiro non era sicuramente dovuto al peso delle valigie, né era da attribuire ad improvvisi malanni, bensì all’incontenibile emozione, frutto di una lunga attesa, intessuta di nostalgia per la sua casa e l’antico borgo,  particolarmente dolorosa nelle notti di Natale. Egli non poteva più sciogliere l’emozione in lacrime, terminate da tempo, consumate nelle silenziosi notti esotiche nel cuore di una terra straniera ed aggressiva. Grande era la gioia di rivedere i familiari, gli amici e sperimentare affetti giovanili, che sarebbero stati coronati poco dopo dal matrimonio e dall’arrivo di due pargoli, che lo avrebbero prima allietato, poi accompagnato ed aiutato a  superare momenti bui della vita, come l’imminente  manifestarsi di tragiche vicende politiche: amici divisi dall’ideologia, fratelli contro fratelli e la desolante fine dei tradizionali valori. Per me, via Gavignazzi è il correlativo oggettivo di tutto questo aggrovigliarsi di sentimenti,  diversi e contrastanti, rapidamente ma intensamente vissuti nell’animo ogni giorno di una lunga vita, castigata tra sorrisi e lacrime, commedia e tragedia; un terremoto dell’anima di fronte al pensiero di istanze esistenziali difficilmente comprensibili; uno sconvolgimento dello spirito, particolarmente intenso per la morte innocente di chi aveva da poco iniziato a vivere e ad amare la vita.

Tuttavia, come per l’improvviso intervento demiurgico di un Deus ex machina, alla fine il dolore si sublima nella pace dello spirito, sebbene per natura inquieto, favorito dal rivivere nella memoria, e non solo nel ricordo, la vita di mio padre, lunga di anni e sostanzialmente felice, vissuta tutta per gli altri e priva di ogni pur minimo egoismo, e l’eroica morte di un ragazzo, che ha contribuito col supremo sacrificio  a quella  libertà di cui oggi possiamo godere, a volte purtroppo senza rendercene conto,  certamente manifestando minima riconoscenza  per  quanti morirono perché noi potessimo continuare a vivere.

Come sempre, la serena bellezza di Manierta e delle quiete vallate circostanti, contribuiscono in modo efficace a riportare il ritmo del mio cuore stanco nei valori fisiologici ed il ritorno a casa è reso assai piacevole e salutare da un rinnovato entusiasmo e dalla gioia di vivere.